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Comunicazione verbale e non, in: “Odissea delle lingue contemporanee, Maestri 19-20”



Comunicazione verbale e non, in: “Odissea delle lingue contemporanee, Maestri 19-20”


Che effetto potrà mei sortire che le argomentazione di un archeologo Massimo Valerio Manfredi e quelle di un linguista Paolo Balboni, siano portate a collidere sul piano della comunicazione?

Intanto, non da Adamo ed Eva, ma dalla guerra di Troia, dallo ricercare, nei racconti popolari nella forma usata dai cantastorie, che nel secolo scorso erano ancora circolanti nel Peloponneso, tracce di veridicità degli antichi poemi greci noti a tutti gli appena scolarizzati, iniziò il nostro archeologo.

Se ne fecero delle registrazioni vocali che proprio racconti di cantastorie testimoniano e da ciò si poté dedurre che un fondamento allo scontro tra due coalizioni rappresentative delle due culture, l’occidentale e l’oriental-africana, sia avvenuto nell’epoca di cui si novella.

Su cosa non si saranno intesi? Come sempre differenze di concezione della vita e del mondo, come anche in scala ridotta sperimentiamo continuamente pur in piccoli ambiti familiari o di amicizie, dove, a garantire eventi non disastrosi, è il comune linguaggio: potremo anche rimanere ciascuno del proprio parere, su specifiche questioni, ma, proprio mediando con il linguaggio, riusciamo a mantenere accordo sull’insieme delle altre.

Ricordiamo, quando si dice che vi sono almeno due storie, quella resa ufficiale dai vincitori e quella latente, fatta circolare in circuiti necessariamente più ristretti, dei vinti. Orrori, descritti simmetricamente, dovrebbero convincerci definitivamente che nelle guerre si registrano solo perdite. 

Le perdite, fatte salve quelle umane, più ingenti sono di ordine sociale, di civiltà, e qualcosa, nella descrizione degli eventi contemporanei descritti come guerra, anche solamente nell’uso dei termini adottati per le descrizioni e che vi alludono, dovrebbe metterci in guardia rispetto alle richieste di cessione di libertà che, una volta cedute, compromettono il nostro poter gestire con riservatezza il nostro sentire e lo stato di salute, perché non divenga strumento di selettività ad ogni passo della nostra vita.

Di grande aiuto allora, proprio sul fronte della reciproca comprensione dei mondi altrui è lo strumento a cui giunge il linguista, e lo suggerisce come pratica raggiungente l’obiettivo del parlar un’altra lingua, differente dalla propria.

Si trovi dove, nella nazione in cui si parla la lingua non nostra che stiamo studiando, si insegni la nostra. Quindi ci si proponga per essere corretti nei propri errori di traduzione ed a nostra volta esser correttori delle traduzioni del nostro corrispondente. Con spirito di reciproca pazienza, alternando in rete, periodi di un quarto d’ora, per non più di un’ora giornaliera, potremo registrare a breve grandi progressi.

Un esempio, per uscire allo scoperto: nella lingua italiana i nomi collettivi sono singolari, ad esempio, gente, gregge, ecc., pur riferite ad una collettività restano al singolare, cosa di cui forse raramente prendiamo coscienza, avendone acquisito nell’uso, con l’orecchio, l’appropriatezza espressiva linguistica che mai ci porterebbe a preferire la forma plurale pur se il riferimento è ad una collettività. Saremo così in grado di correggere la frase che in nostro interlocutore straniero, ferreo della logica dei rapporti tra singolari tra loro e plurali tra loro, ignorando le eccezioni, sbaglierebbe.

Ebbene, come ben si immagina, essendo le lingue un sistema complesso, ove, le regole hanno le loro, profondamente motivate, eccezioni, ci è più facile acquisirle per via di correzioni che, ripetutamente, attive sullo stesso tema, alla fine ci trasferiscono una sensibilità che a volte è anche dell’udito e nella scorrevolezza del linguaggio, pur se, qui stiamo trattando, di traduzione in forma di scrittura. Ciò che acquisiremmo con lunghe permanenze all’estero per la forma parlata, possiamo, per la scritta risolvere a distanza.

Sfatata anche l’efficacia di alcune pratiche come l’apprendimento di una lingua tramite la discografia, proprio perché la forma cantata, ad esempio, ci occulta le accentazioni per via del rafforzamento dei bassi in sincrono, e peggio ancora ci troveremmo se il brano fosse un Rap, spesso difficilmente seguibile anche da un madrelingua.

Che dire: come le irrinunciabili espressività di certe espressioni dialettali, ci si potrebbe lasciare con una riflessione sulla irrinunciabilità, per ciascun popolo, alla propria lingua, proprio perché portatrice, veicolatrice, di contenuti culturali stratificatisi nel tempo, del suo uso, talchè ad esempio, ci si ostinasse a visionare pellicole cinematografiche nella loro lingua originale, potrebbe venir in aiuto la sottotitolatura per semplificare la nostra comprensione, proprio per la maggiore pratica che riusciamo a fare sul, privo di inflessioni, testo scritto. Ai sottotitoli invece nella nostra lingua, preferiamo, se esistente il film doppiato, più capace di restituirci la bellezza dell’opera artistica, senza deviare la nostra attenzione dallo sforzo interpretativo del linguaggio parlato che non fosse nella nostra lingua.

Molto altro, per molti altri spunti di riflessione, per chi avesse piacere a fruire le lezioni, in libertà di scelta di tempi, su RaiPlay.

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