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Due tensioni fantascientifiche, in : “Mantegna e Beethoven Maestri 49-50”



Due tensioni fantascientifiche, in : “Mantegna e Beethoven  Maestri 49-50”


Sono le grandi passioni a dar senso all’umanità, a farci orgogliosamente sentire parte di una espressione unica nel suo genere, come i grandi personaggi, e gli artisti, più degli altri, riescono.

Le espressioni che allora usiamo sono: “senza tempo”, “fuori dal tempo”, “eterno”. È utile rilevare come sostanzialmente è la sfida portata al tempo a render parte di una unica famiglia le tre citate espressioni.

V’è un misto di timore per l’implacabilità del tempo e, di rispetto, per un giudice che in fondo sentiamo come saggio, se solo pensiamo ai nostri limiti biologici, che pure, altri entusiasti, ipotizzano, un giorno, con la scienza, potremmo essere in grado di sconfiggere, capaci di disporre a piacimento della totalità dei ricambi di parti ed organi del nostro corpo.

I maggiori dubbi, vien da nutrirli sulla questione del decadimento cerebrale poiché, l’eternità della nostra anima, quella parte immateriale di noi, che proprio al nostro intelletto tendiamo ad ascrivere: lì, la penseremmo riposta, non pienamente affrancati dalla razionalità perché ancora non approdati a quelle superiori saggezze che stanno nell’irrazionale.

L’irrazionale, quella ragione superiore, oltre i limiti della nostra ragione, di cui altre volte fummo, da altre lezioni, anche recentemente, stimolati a concepire, e tra ciò, quell’elogio dell’imperfezione che comprendemmo essere il miracolo che ha reso possibile il nostro creato universo tra i tanti falliti tentativi divini, per eccesso di perfezione che crea stasi, dove l’imperfezione genera il movimento e quindi la possibilità della vita. Sinché ci sarà un qualche squilibro, l’universo continuerà ad esistere.

Chissà che non venga un tempo in cui nel nostro sentirci parte di qualcosa di più grande di noi, saremo capaci di farla prevalere, la saggezza dell’esser parte. Intanto, ci industriammo a dar di noi, a chi dovesse imbattersi nella nostra Voyager II, lanciata nelle profondità dello spazio, il meglio, per essere ben rappresentati, e, tra l’altro, proprio la registrazione della nona di Beethoven, quell’inno alla gioia che abbiamo voluto anche come inno della nostra migliore idea di Europa.

Il pittore Mantegna la cui arte è legata ad una delle corti più colte dell’Europa del tempo, la Mantovana dei Gonzaga e degli Este, contribuisce ai nostri orgogli con quella che lo Storico dell’Arte Claudio Strinati, nella prima delle due lezioni, della puntata di Maestri, descrive come “fantascienza del passato”, con ciò intendendo il gran lavoro interpretativo del passato imbastito dal Mantegna, e con altri studiosi.

Anche qui, è come se i lasciti al futuro delle genti del passato, come i nostri invii nello spazio dell’universo, siano stati selezionati. Più verosimilmente, rimase solo ciò che, fosse intenzionalmente o meno realizzato per sfidare il tempo, le materie del marmo, come del bronzo delle statue, furono, ovviamente, riservate ai monumenti, ossia a ciò che memora.

Ecco allora, rese immortali, nel tempo, anche nelle iscrizioni, ma, in evidenza pubblicissima, soprattutto nella statuaria, figure come quella dell'Imperatore romano Marco Aurelio, apparire di statura gigante per le opere di saggezza compiute a beneficio del suo tempo e che noi ereditiamo. 

Aggirarsi, allora, con altri colti, il Mantegna, tra i resti romani affacciati sul lago di Garda, in vesti da antichi romani, ci chiarisce qualcosa sul perpetuarsi del fascino delle età dell’oro, come furono pensate le civiltà che grandi tesori ci hanno lasciato.

Il Mantegna non fu da meno, con noi, in quanto a lasciti e, solo la barbarie della guerra riuscì a privarci di sue splendide opere pittoriche in affreschi, di cui oggi abbiamo le foto in bianco e nero che erano state fatte a scopo documentario. 

Testimonianza preziosa affinché frammenti di intonaci che, pietose mani, disseppellirono e salvarono dalle macerie del dopo bombardamenti padovani del 1944, potessero, pur nella loro parzialità ridar vita alle reali figurazioni, per certosina opera di collage, su adeguati supporti ricomposte.

È una testimonianza più ampia di quanto apprendiamo dalla Scuola di Atene di Raffaello, quella nelle opere che affrescavano la splendida cappella padovana, proprio perché testimonianza estesa agli usi della vita giornaliera, in tal caso, dei tempi dell’Impero Romano. 

Nulla da stupirsi se la corte mantovana fosse la più colta dell’epoca, considerati gli interessi che muovevano i suoi studiosi ed artisti, e che avevano raggiunto un grado di emancipazione tale da non soggiornare più a corte ma in proprie splendide dimore, peraltro ricche di raccolte artistiche di opere d’altre epoche, a fini di studio e godimento.

Quello che Mantegna è stato per il passato, Beethoven lo è per il futuro, ed in una maniera davvero fantascientifica se solo riflettiamo sulle sue partiture musicali, in alcune delle quali sono evidenti tracce di ciò che verrà a maturità nella nostra epoca, e che chiamammo Jazz.

Accomuna ancor più i due artisti, lontani nel tempo e nello spazio, ma non nella sensibilità, l’ammirazione per gli uomini capaci di azioni di grande respiro, come Napoleone in cui Beethoven vide, agli inizi, il realizzatore dei principi seguiti alla grande rivoluzione francese, ed il potenziale unificatore dell’Europa, rimanendone deluso quando Napoleone si autoproclamò Imperatore.

Fu così che l’opera musicale inizialmente dedicata a Napoleone, cambio destinazione. Lo stesso impeto attraversa il grosso della produzione musicale di Beethoven e non a caso, come più su ricordato, il suo inno alla gioia, ci rappresenta come civiltà musicale sul navigatore dello spazio cosmico.

Lo stesso handicap della sordità che lo rese inquieto, trova negli attacchi eseguiti al piano da cui conduce la sua lezione la pianista Beatrice Rana quel passionale slancio che l’artista lancia come continue sfide armoniche, ma anche dissonanti. 

Anticipazioni che il secolo dopo troveranno le sensibilità adeguate a quegli sviluppi possibili e che, come detto, daranno luogo all’universale gusto per la svisatura del singolo strumento sul fondo del ritmo degli altri, ed a turno, tra i musicisti delle formazioni jazzistiche.

Pare possibile tracciare ora un’identikit dell’individuo di cultura e, più ancora, dell’artista: vive, con la sua opera, attraversando i tempi e gli spazi, e non solo nella sua proiezione futura, quando la sua opera verrà sentita coeva dalle genti di epoche posteriori, per quella magia dell’annullamento del tempo che l’Arte può compiere. Anche nella loro epoca, questi straordinari umani, vissero da cittadini dell’universo, vincitori sui limiti dello spazio e del tempo.

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