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Emily Dickinson, in: “A quiet passion”

 
Sovente, coloro che notiamo tenersi più ai margini di quella che sempre più affermiamo essere la “vita reale”, ci stupiscono per il grado di profondità della loro conoscenza del vivere naturale.

È come quando ci spiazzano, per la loro conoscenza di dettagli della vita quotidiana vissuta in altre nazioni, i nostri internetnauti e siamo propensi a credere che, quegli stranieri, si siano anche loro fatti idee abbastanza precise sul nostro mondo nazionale.

Eppure, una riflessione più approfondita, ci farebbe scoprire che, il più delle volte questa conoscenza è superficiale proprio perché riguardante aspetti che per loro natura sono facilmente mutevoli e quindi di cui possiamo altrettanto facilmente liberarci, appena passa la moda, oppure, duraturi, ma stereotipi, anch’essi veritieri, ma altrettanto superficiali, come, in fondo, gran parte delle  semplificazioni.

Più complessa e basata sui testi di grandi scrittori, ed in genere dei grandi comunicatori, come qui l’illuminata regia, la discesa entro l’animo umano che, per fortuna, si mantiene ancora complesso ed insofferente nei confronti delle semplificazioni.
Eppure, la questione della tenuta della nostra più genuina identità, non possiamo registrarla come presenza di una barriera saldissima ed inamovibile, che tale non è, salvo rarissime eccezioni costituite da individui che perseguono una eccezionale esistenza “fuori dal mondo”. 

La maggior  parte di noi che pure esprimiamo “nostre opinioni”, il più delle volte attinge al già detto, pur se rielaboriamo e comunichiamo con i nostri modi di costruire le frasi, il che, quindi, ci fa sentire padroni anche dei concetti. L’imperversare dell’informazione, ci fornisce molto materiale e questo comporta necessità di lunghi tempi di rielaborazione che pochi riescono a permettersi, per cui, prevalentemente, reimmettiamo in circuito, null’altro che ciò che riuscimmo ad assorbire.

Il principio dell’assorbimento è essenziale, ed ancor più e meglio frutta se per il tramite dei libri e di autori che tanto lessero a loro volta e ben si nutrirono, selezionando, come, per fortuna, la cultura sa fare e tramandare pure.
È in un tale ganglio e contesto che si trova a nascere Emily Dickinson, e ciò la rende la poetessa che conosciamo e che è. Abbiamo, nel seguire la sua vita, l’occasione di apprezzare, quanto realmente possa apprendere, della profondità del mondo, chi si apparta, ed oltre a far buone letture, si nutre anche di limitati rapporti interpersonali: sostanzialmente la famiglia ed eccezionali amicizie.

Hanno pertanto rilevanza notevole queste scarne occasionalità che ci si concede e lo scambio è sul filo della citazione letteraria, ma non come vezzo, bensì come prestito di una forma al cui contenuto si aderisce e che meglio non si saprebbe comunicare. Anche arguzie che immettono i più dotati di intraprendenza e fame di mondo, che pur si accostano a tale mondo e positivamente lo “contaminano”. Facile è la contaminazione in chi si dispone a raccogliere frutti maturati in altri giardini, salvo il non perdere se stessi, i propri tratti fondamentali, grazie al filtro della propria formazione, filtro sempre attivo. 

Ora, solo un accenno a due relazioni rivelatrici dell’animo di Emily: la coetanea amica che ha portato il soffio dell’anticonformismo e libertà più esplicita, ed il parroco, dalla cui raffinata istruzione ella attende un responso sul suo scriver poesie, delusa dal mutar senso ai suoi scritti i cambi di punteggiatura perpetrati dal suo editore, in alcune sue poesie, “per renderle fruibili al pubblico”.

La coetanea è l’amicizia sentita, in cui vedere tutto quello che potenzialmente potrebbe divenire anche lei e che, mai sarà. E, come nelle amicizie, quando prendono una strada che non ci si attendeva, è tale la delusione che vien da rinnegare tutto, anche il passato. È la proiezione di se che non ha funzionato e, l’amica, liberissima per la società ottocentesca, che pure professava apertamente cinismo e quindi, implicitamente, anche possibilità di adeguarsi al mondo, quando lo fa, perde l’aura, per Emily che è integralista nel suo condursi.

Il parroco è la cartina di tornasole, è l’incarnazione dell’intero mondo che, viene scelto come interlocutore: è, tutti coloro che hanno sensibilità e cultura. Per questo una sequenza, in giardino, è dedicata alla consegna del libretto di poesie le cui pagine sono cucite a mano da Emily stessa. Il disporsi alla lettura, del parroco, raggiungendo, la panca in giardino e l’indugio dell’inquadratura sul volto e la figura di Emily che è come si trovasse ad un giudizio che potrà cambiare radicalmente il futuro del suo esprimersi in poesia, ci trasmette la tensione emotiva in cui è condensata la bellezza di un palpito denso e umanissimo. Solo dei grandi è il dubbio e ad essi è  spesso preclusa la consapevolezza della misura della loro grandezza.

Molto più complesso sarebbe anche solo accennare ai saldi rapporti familiari che sono il suo mondo e che di fatto gli si restringe ad ogni nuova assenza.

Così, rimane da chiedersi: cosa ancor oggi ci affascina della sua scrittura e mi par condivisibile sia la sua capacità di metterci in rapporto con la natura, senza alcuna mediazione, che il suo far emergere in noi il desiderio di una vita conforme alla dantesca: “Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtude e conoscenza”.

Viene, in ultimo, da osservare e chiedersi, quanto possa essere in ciò, nell’abbattimento delle barriere tra noi ed il mondo naturale, come in tutta l’arte che si produce ed interpreta il mondo naturale, la nostra migliore occasione di salvezza dalla superficialità e quindi dalla perdita della nostra stessa natura. Ed ancora, che tale percorso, intrapreso come fruitore, poi si compia come partecipazione alla più piena vita, a dispetto della riservatezza e necessità di ascolto del silenzio, che, darà il proprio contributo al mondo, come “arte interpretativa”. Ciò: lo scrivere, come il disegnare e la pratica di almeno una delle tante altre arti, dovrebbe aiutarci nella direzione dell’incitamento dantesco.

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