Nell’accoglienza, il contraltare alla morte interiore, in: “Il sacrifico del cervo sacro”
Si può comunicare tanto, pur spendendo poche parole. Il racconto filmico ha tante tecniche capaci di veicolare contenuti altrimenti inesprimibile e che arti come il teatro hanno continuato a perseguire, ogni volta mettendo in scena risvolti dell’animo umano. In passato, il genere, era molto più popolare che nell’attualità, persino una sorta di scuola di vita perpetuamente rammentata attraverso la messa in scena di profondi drammi umani, come nelle tragedie greche.
Quando incontriamo l’ineluttabile, e la sfida alla nostra razionalità diviene insopportabile, finiamo per perdere proprio quella nostra forza, la razionalità, per accedere ad una superiore, la coscienza, per tutto ciò che è privato e l’etica per ciò che riguarda i rapporti con gli altri.
In ciò si potrebbe sintetizzare quanto di sostanziale ci comunica il racconto filmico: “Il sacrificio del cervo sacro”.
Il dramma si insinua, sottile, nelle vite tranquille e modernamente agiate, ricche di stimoli positivi, di valori: eppure...
Si! ...è bastata una sola trascuratezza, del capofamiglia, aver voluto sorreggersi con l’alcol, quella sola volta, in sala operatoria, qualcosa di cui nessuno si è accorto, e solo l’amico anestesista ha visto, una debolezza per darsi coraggio prima di un compito che ha sempre a che fare con l’affido, che si sente impegnativo, della vita altrui nelle umane mani del chirurgo, da cui ci si attende: il miracolo.
Solo che, il figlio del deceduto, che sente come una gravissima sottrazione la perdita del padre, prima prova a sostituirlo con lo stesso chirurgo, trasferendogli totalmente il ruolo, poi, di fronte al rifiuto del chirurgo di abbandonare la sua bella famiglia, persegue, tramite una sorta di forza di volontà che ha sete di giustizia, il riequilibrio. La richiesta via via più chiaramente esplicita è di un’autopunizione che impone al cardiochirurgo, che, da se, deve provvedere, sottraendo un membro alla sua famiglia.
I ritmi, le sequenze, spesso inquadranti come da un occhio che veda dall’altro, sequenze che osservano dalle spalle il protagonista, quasi una coscienza esterna, giudicante, fanno del racconto un singolare eppur necessario richiamo alla responsabilità personale ed alla necessaria espiazione in vita delle manchevolezze.
Un rigore da cui siamo molto lontani e di cui, come anche qui, solo l’offeso può reclamare l’applicazione. È, come nelle memorie che le religioni ci tramandano: è la fraterna correzione che, non trascura di dare l’esempio per far giungere all’espiazione il fratello che ha peccato, ad agire.
Conoscendo qualcosa della formazione del regista Yorgos Lanthimos e del suo seguire maestri come Stanley Kubrick, persino operando una sintesi con la scuola di Michael Haneke, comprendiamo, pur osservando quanto sia ardua la strada e coraggiosissimo l’impegno del regista, l’impegnatività del compito assunto ed ancor più la necessarietà di riaffermare il principio di responsabilità personale, da cui molto si è discostata la nostra società contemporanea.
Qui, la questione viene magistralmente spostata sul piano dell’individualità, essendo da noi percepite come troppo distanti da noi, le responsabilità sociali. È come se ci venisse indicato nella necessaria tenuta del piccolo nucleo sociale familiare, l’esercizio della prima responsabilità sociale, da cui riapprendere le altre più ampie.
Aborriamo la crudezza dell’esito, pur se il contropiede che ci viene imposto è proprio l’accettazione della logica cruda, persino cruenta. Riuscirà a farci approdare ad una differente soluzione, la nostra cultura? ... ci mette alla prova e, tanto più dovremmo esser stimolati da pur cruenti esiti, a riprender in cura i nostri sopiti conflitti interiori. Intanto riscoprirli, anziché anestetizzare il nostro animo.
Sono decodificabili come segnale di perdita gli sguardi dei protagonisti che quasi ritualmente si incontrano nell’anonimo (celebratissimo in fotografia) luogo per mangiare, nell’ultima sequenza. Qualcosa nelle loro vite si è spento: ora comprendono che la soluzione non stava lì, bensì in una solidarietà che doveva esser capace di attraversare la soglia del mettere in gioco se stessi e la propria famiglia, non più marginalmente, ma pienamente, facendosi cambiare dalla nuova situazione, sconvolgendo la propria..., in una parola: accogliendo!
Più di un invito a riflettere su quanto oggi sia affievolita la nostra coscienza e quanto si adoperasse sin dall’antichità, la cultura greca, con le tragedie, a mettere in scena le questioni più irrisolte dell’animo umano, spesso stimolandolo cruentemente, come qui, nelle maniere del linguaggio filmico che sin dall’inizio ci mette repentinamente sotto gli occhi, sulle note dello Stabat Mater, la ripresa di un vero intervento chirurgico.
I protagonisti, alla fine, sentono la stessa mancanza che affligge l’orfano, ineluttabilmente.
Una messa al centro dei nostri pensieri della sacralità della vita, un bene da custodire per se stessi e per gli altri soprattutto. Questo il disporsi che permette ad una società distratta di ripacificarsi, prima ancora che con “l’altro”, con se stessa.
Non saranno i paternalismi, peraltro ormai causanti solo insofferenza e ribellione a risolvere alcunché, bensì la capacità di mettersi realmente nei panni dell’altro senza perpetrare ipocrite adesioni senza reale costrutto: mi ripeto, accoglienza!
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