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Il disvelamento del vero, in: “Van Gogh, sulla soglia dell’eternità”



Una regia in simbiosi con l’argomento: empatica!
Ciò è quanto ci trasporta nel mondo di Van Gogh: possono essere utili alcune esemplificazioni chiarificatrici che gioveranno ai futuri spettatori di “Van Gogh. Sulla soglia dell’eternità”.

Le sequenze in cui Vincent corre nei campi, quasi volesse assorbirne l’intera complessità dei paesaggi, con le riprese a leggere lo scostarsi, dell’erba alta, istituiscono un percorso emotivo per lo spettatore che è indotto a cortocircuitare queste immagini, in mutamento continuo ed offerte come soggettiva ravvicinatissima, con il tema delle pennellate veloci e nette sulle sue tele.
È il punto di vista, nel senso più ampio del concetto, di Vincent Van Gogh, ad esserci offerto.

Con questa modalità ed altre come interi brani di parlato scorrenti nelle nostre orecchie senza alcune distrazione, perché il telo di proiezione viene mantenuto senza immagini, nero, si lavora alla disgiunzione degli elementi perché poi lo spettatore possa creare i suoi personali link, una rete di relazioni tra immagini e concetti espressi verbalmente che compone un carattere, i suoi risvolti, di più, un modo di essere, ineluttabile: il dipingere, l’essere i suoi quadri, come sentiremo dalla stessa voce di Vincent.

Per altre cortocircuitazioni, e nell’esplicito obiettivo dell’artista: rendere visibile attraverso i suoi quadri, quanto ai più risulta nascosto, invisibile, ci vangogghizziamo per tutto il tempo del film.

Radicalmente Vincent afferma in un dialogo che lui ritrae la luce, e saranno altre sequenze, molto fuori fuoco a renderci visibili colori ancor più che forme.

In Vincent, lo stato ricercato è estrema integrazione nel creato, persino sin alla perdita della coscienza del se stesso, continuamente sperimentata, da cui deriva anche il ricovero per disturbi mentali

C’è la ricchezza e pure la fragilità dei rapporti umani di Vincent, quelle dipendenze che ci fanno sentire il nutrirsi dei valori dell’amicizia, in una personalità che entra in rapporto umano con gli uomini, così come con la natura, facendosi natura per ascoltarla e subito farla parlare nella maniera più genuina, quella che ai più sfugge, e per cui egli si è dato il compito di essere il disvelatore del vero.
Ecco allora il colore puro depositato generosamente sulla tela, con pennellate precise e veloci, quelle che fanno dire a Gauguin: “scolpisci, più che dipingere: tu sei uno scultore”, questo, se non testuale citazione, il senso, prima problematizzante, successivamente, trascorsi degli anni, assunto come geniale grandezza dell’amico Vincent.

Vincent è consapevole dell’improbabilità di un apprezzamento nella contemporaneità della sua espressione: solo l’amico Paul Gauguin, preso anche lui dal voler dipingere la verità oltre l’apparenza visibile ai più, giunge a comprendere la genialità di Van Gogh.

Gaugain è anche colui che intuisce la necessità di Vincent di trovare luoghi dalla luce più calda, quella della Francia del sud, i gialli, laddove lui cerca i rossi e per tale motivo intraprende viaggi verso l’Oriente.

Non si sa dire da cosa si sia presi nel tempo dello scorrere del film, ma è certo che la regia non ha risparmiato impegno nel farci vivere nella pelle di Vincent Van Gogh, l’esperienza di quest’avvicinamento all’eternità.

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