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Dove sta andando il mondo? Guardare alle periferie! In: “Fortunata”

Per comprendere dove sta andando il mondo, bisogna guardare alle sue periferie: ed è quello che fa Margaret Mazzantini, osservandole e scrivendone; traspone e sintetizza in un affresco lucido Sergio Castellitto.
L’esito: “Fortunata” che contiene la sua più sentita chiave di lettura che sceneggiatrice e regista hanno voluto nei titoli di coda, in “Vivere”, di Vasco.

Potrebbe concludersi qui la mia comunicazione di quanto appreso, eppure avrei sottratto tanto, come di: segnalare presenze in apparenza marginali che pure ci offrono tanti altri spunti. Allora vi segnalo la presenza del cinesino a cui è affidato il compito di comunicare a Fortunata ciò che ad altri sfugge, con esatta e conseguentemente impietosa lucidità spontanea. 

Lui è “l’osservatore” che interpreta la nostra società, e, come pensiamo-sappiamo dei cinesi, sa assorbire, integrarsi e sostituirsi, nella contemporanea crisi e decadenza del nostro mondo occidentale, riproducendone gli effetti più di superficie e frivoli, eppur esprimendo vitalità e positività in proiezione futura, già nel presente.

Il cinesino comunica con Fortunata da dietro una rete metallica, è la condizione in sordina che la comunità cinese sceglie, quella della apparente marginalità per intervenire a sostituirsi senza clamore nelle attività di maggior rendimento, come accade per il centro benessere a cui aspira Fortunata e che solo con il loro finanziamento riesce ad aprire, dove i suoi risparmi, frenetici e sudati facendo la parrucchiera a domicilio, non riuscirono. 

Altre due volte vediamo il cinesino quasi obeso: una volta fuori dalla rete annunciante che il bipolare suo amico è uscito con la madre ex cantante lirica per... ed a Fortunata, come a lui, tutto è chiaro: stanno andando al loro definitivo distacco. L’ultima volta che vediamo il cinesino è fuori dal centro benessere di Fortunata, a cui la sequenza filmica cambia le insegne da Luky in caratteri cinesi, tra l’ingresso di Fortunata ed il suo uscirne: e questa volta, con il cinesino sulla soglia, non si vedono e non si parlano. Tutto è compiuto, sembrerebbe!

Non darei il senso della ricchezza dell’affresco se non accennasi ancora ad una forma di presenza intercalante della squadra di donne cinesi che, vestite tutte uguali, fa ginnastica nella grande corte aperta sui resti dell”acquedotto romano marginante la borgata, sulle note di brani musicali occidentali; un’altra volta quello stesso spiazzo accoglie i musulmani in preghiera e ciò fa pensare a come questa coesione delle comunità è la forza che salverà il mondo.

Mancai di descrivere il drappello di personaggi coprotagonisti ed i tanti “secondari”, anch’essi di essenziale ruolo nella storia, come anche delle sequenze architettoniche e paesaggistiche protagoniste e didascaliche ad un tempo. 

La statica inquadratura della bella stazione tardonovecentesca da cui con la figlia intraprendono un breve viaggio interrotto e la sequenza architettonica, un piano sequenza invertito che dalla potente corte della questura, arretrando, si allarga, da un interno, sulla torre che troneggia, sono le due che meglio ricordo. Questa sequenza chiude il dialogo, l’acceso quasi monologo di Fortunata a cui lo psicologo che l’ha accompagnata per scagionare dall’omicidio della madre l’amico bipolare, risponde con inadeguati argomenti di buon senso. 

È dove leggiamo la sconfitta di un sistema sociale basato su leggi lontane dalla umanità, che invece è carattere spiccato delle persone genuine. Credo sia, in questo film, la critica sociale più pervasiva, quella che individua la crepa nel rapporto tra istituzioni, e con esse la borghesia, ingessate, e la voglia di intraprendere di coloro che tutto hanno dovuto provare a guadagnarsi con il duro lavoro, che pur non bastò.

Fortunata in una delle ultime sequenze attraversa ballando il campo delle ginnaste cinesi, come assorbendone l’energia, e nell’ultima ci viene proposta positiva, come in fondo sempre l’abbiamo vista, con la figlia a fianco e che poi prende in braccio. È sancito il luogo ove la nostra società si rifugia e da cui ripartirà, la famiglia, avendo fatto esperienza e tesoro degli insegnamenti periferici sulla condivisione e su quell’unione che fa la forza del cambiamento necessario al ritornare a vivere, proprio come nelle note di Vasco.

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