L’esperienza del perdersi: Riflessioni a seguito della visita al Museo di Messina
Sembra proprio che il curatore dell’allestimento museale abbia voluto escludere il paesaggio esterno dalla vista dei visitatori. Potrebbe essere per far concentrare il visitatore su quanto vi è esposto, che è tanto ed interessante. Sappiamo anche che, come esiste il giardino disseminato di frammenti scultorei ed anche ricomposizioni su supporto di un’intera porta urbana della città, esistono depositi interni. Depositi che conservano molte volte la quantità che è esposta nel continuum delle sale e che prendono il visitatore e lo conducono per percorsi ondivaghi sia planarmente che in elevazione, tramite le rampe, tra le mille e mille opere esposte.
Tutto altro, rispetto all’impianto che nel progetto così come lo vediamo dall’esterno, ci attendiamo. Infatti le lame di luce cuspidate che a ritmi regolari salgono, scandendo il fronte e da esso rigirando in copertura, tutt’altra atmosfera ci fanno attendere. Ciò, fatto salvo il corpo aggiunto, tutto chiuso della testata verso viale Annunziata e che conclude il ritmo della serie, come, sul lato opposto, la preesistente antica filanda, prima sede delle esposizioni, ora prevalentemente uffici.
Le lame di luce che attraversavano originariamente la nuova struttura e che oggi sono in varia maniera schermate e prevalentemente negate alla vista, soprattutto dal soffitto, affiorano solo una volta tramite la ridotta sagoma triangolare di un lungo due falde in soffitto. Taglio di luce spiovente che lascia intuire quanto fascino dell’architettura si sia perso e chissà, anche giocosità e forza delle infilate prospettiche che provo ad assimilare a quelle della bella scuola di Mario Botta a Morbio Inferiore, in Svizzera del 1972 (in Lotus International n. 11 pag 159).
Questa scuola, composta da blocchi seriali, infilzati visivamente all’interno, dallo sguardo di chi si trovi a percorrere uno dei dispositivi di risalita che li sono scale e qui, nel Museo, invece, sono rampe. Rampe di piani inclinati di agevole percorrenza ed altrettanto belle, e più misurate, direi, di quelle, anch’esse snodantesi su un vuoto quadrato, della Fondazione Joan Mirò progettata da Joseph Lluis Sert a Barcellona di Spagna, accogliente, pendenti dal soffitto, i “Mobiles” di Alexander Calder.
Qui l’espandersi dello spazio secondo assi di penetrazione dello sguardo, ora accade e vien visto da chi lo cercasse, simulando più una struttura medievale. Queste penetrazioni dello sguardo, come le rare volte che la vista riesce ad allungarsi anche verso il paesaggio del porto cittadino, decretano un prevalente interesse del curatore a privilegiare il dialogo con lo studioso. Mi sovviene quanto nel suo “Brunelleschi Mago”, Giovanni Michelucci, (per intenderci, con i più, l’Architetto della chiesa sull’Autostrada del Sole, in Valdarno) sottolineava nel confrontare l’operato di Michelangelo con quello di Brunelleschi, proprio in termini di reazione del pubblico che si accosta alle loro opere architettoniche. Riporto il senso aiutato dalla memoria e con mie parole: laddove Michelangelo parla solo ai colti, l’architettura di Filippo Brunelleschi si da comprensibile a tutti, senza per questo non mancare di destare la curiosità dei più colti, con possibilità di altri sensi, sfuggiti agli altri.
Si comprende cosa Michelucci, ed io con lui, apprezziamo di più. Resta da dire che, pur occultata, nei suoi elementi, la buona architettura, proprio come la natura, che fagocita lo spazio, avrà suggerito quelle infilate della vista di cui come dissi rimane traccia, e più ancora, la luce che descrive il suo percorso, attraversa le reti di fattura scarpiana, qui di occultamento dei lucernari, svelandoli attraverso il depositarsi della luce filtrante sulle superfici opache e disegnandovi la traccia e più.
Ho avuto modo, in questa bella giornata di sole di registrare più volte questo effetto, e non solo al piano più alto, ma ogniqualvolta non si è interposta una controsoffittatura opaca al penetrare della luce dall’alto. Ovviamente si fronteggiano due idee e si comprende come caparbio debba essere stato l’impegno per portare una spazialità pensata per essere attraversata dalla luce, verso un articolato labirinto che la nega.
Lotta titanica tra la serena architettura vincitrice del concorso di idee del secolo scorso e le scelte del nostro secolo in merito alla configurazione espositiva, facente uso ed interpretando, oltre le intenzioni dello stesso Carlo Scarpa, i materiali e le configurazioni scarpiane che in edifici storici hanno portato a traforare e far entrare luce nei grandi spazi, e porre pochi elementi esposti in grande evidenza, dove qui è stato operato un incessante frantumare e diversificare, probabilmente nell’intento di far più spazio alle tante interessanti opere esposte.
Oggi, qualsivoglia museo che non volesse relegare gran parte della sua collezione nei depositi, in attesa di nuovi ampliamenti, adotta la strategia delle “Temporanee” a fianco di un nucleo consolidato di poche opere di richiamo certo. Essendo poi un luogo di diffusione della conoscenza, piuttosto che di studio per eruditi, il settore espositivo del Museo, deve, il più semplicemente possibile, esser capace di accogliere differenti collezioni, per cui non si può ipotizzare un lungo lavoro di riallestimento. Pertanto, vista la cura messa negli interventi configurativi dell’esposizione, di cui oggi godiamo, anche in ragione di un costante stimolo alla visita, è proprio la rotazione di mostre tematiche, promuoventi il patrimonio in deposito, ad offrire una occasione di vitalità autorinnovantesi.
Siamo certi che la Direttrice e lo staff, nei limiti delle risorse a disposizione, siano già operanti in tale direzione e che tale propulsione verrà contraccambiata dalla città e dalle istituzioni con ancora maggiore amore per tale patrimonio di memoria e induca a servire meglio tale struttura, inserendola nei circuiti turistici ancora più autorevolmente che oggi, grazie a più capillari inserimenti di immagini, video e servizi.
Come già altrove avviene, dovrà, anche per le scolaresche, divenire luogo di azione, in rapporto con le opere dei grandi artisti, per cogliere, nel fare emulativo del senso: aspetti che altrimenti tendono a rimanere informazione che non stimola la comprensione della complessità fenomenica, se pure non si volatilizza di li a poco.
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