banner

Breaking News

Piccola comunità, in: “Rapina a Stoccolma”


È noto che all’interno delle comunità v’è tra i fenomeni più evidenti e ricercati, la condivisione, accompagnata da empatia. Lo possono testimoniare tutti coloro che, ad esempio, in buoni rapporti con il parentado, si trovano a condividere dal più semplice pasto in comune a più importanti esperienze che punteggiano il vivere quotidiano. 

L’aspetto emotivo fa la sua parte. I legami di sangue a volte tendono a rafforzare per vie sotterranee: si sente di avere una storia comune o parzialmente in comune. L’amicizia è tra i più belli dei legami in cui l’intesa è lineare, viene da un vissuto fatto di frequentazione e condivisione: una comunanza di esperienze e non è detto che gli amici debbano viverle proprio nella stessa maniera, anzi, i punti di vista divergenti aiutano a completare un quadro che, nello scambio, trova una sintesi altrimenti difficilmente raggiungibile.

Detto ciò, è meno facile da concepire che pulsioni simili possano svilupparsi tra persone che occasionalmente si trovano a condividere una esperienza in condizioni in cui il loro rapporto è di dipendenza, come tra sequestrato e sequestratore, come avviene nel caso degli ostaggi nelle rapine. Proprio ciò prende grande parte del racconto nel film, ne è il cuore.

Il caso specifico di quella rapina a Stoccolma, è responsabile della denominazione della cosiddetta “Sindrome di Stoccolma”, per cui avvenne che: gli ostaggi, avendo vissuto per oltre un centinaio di ore con i loro sequestratori, molto attenti a che nulla di male gli accadesse, successivamente, protessero nel tentativo di fuga i loro sequestratori ed anche dopo, giunsero a far loro visita in carcere. 

Ebbene, un dato incontrovertibile consiste nel tempo e nella modalità di isolamento che indussero a far comunità, dovendo, di necessità, condividere semplici esigenze e far fronte assieme a comuni situazioni di pericolo. Il ruolo antagonistico, si spostò anche per gli ostaggi, dai carcerieri alla polizia che li teneva sotto assedio.

La musica di Bob Dylan ascoltata e persino canticchiata assieme, i pasti consumati assieme, le sigarette fumate assieme, ma anche gli squarci di vita personale che emergono come frammenti di vita del fuori che attende di reintegrarci, sono collanti che renderanno la protagonista, figura privilegiata. Le sarà permesso di telefonare a casa, anche di incontrare il marito a cui spiegherà come cucinare il pesce impanato ai figlioletti, sino al grado di cottura gradito, oltre il quale non andare. 

Si ravvisa cioè la duplicità di appartenenza, in cui i legami con il fuori sono relativi alla piccola comunità familiare a cui far pervenire segnali rassicuranti, a cui anche far sapere che ci si prende cura, come si può, anche a distanza.

A volte, piccole comunità temporanee, in particolari frangenti, istituiscono legami molto forti, sentendo legato il loro destino ad una comune vicenda, in cui gli antagonisti sono gli altri, quelli che stanno fuori.

Non so se riflettere su tali relazioni che si istituiscono potrà aiutarci a trovare la via per sentire meno la solitudine umana. Ma, pensiamo a tutti quei casi in cui ci siamo sentiti noi stessi, liberi da convenzioni relazionali: ebbene, se ci fosse accaduto, sicuramente avremo più facilità a comprendere il senso più profondo della cosiddetta “Sindrome di Stoccolma”

Ognuno prova a costruire comunità, il rischio, se non è genuina-contingente, la situazione per cui si configura la comunità, non scatta quella condivisione di livello alto che ci si attendeva: sicuramente l’occasionalità dovrebbe avere connotati di reciproca dipendenza per invece dare i frutti sperati. È il livello dello scambio esperenziale umano ciò che più ci coinvolge.


Nessun commento